Pensieri d’amore

Amare oltre il rancore

 

Claudia e Giuseppe sono stati una coppia di sposi per 16 anni.

Il loro è stato un matrimonio felice per chi non ha mai voluto o osato saperne di più.

Sin dai primi anni della loro vita insieme, infatti, le difficoltà sono state molte e varie: in particolare Claudia era caduta in un profondo stato di depressione a causa di una mancata comunicazione con il coniuge e una incapacità di trascorrere del tempo insieme senza precipitare nella critica più aspra, nella mancata riconoscenza della bellezza dell’altro, nella assenza di quotidiani gesti affetto. Giuseppe, dal canto suo, aveva iniziato a trascorrere molto tempo fuori casa, sentendosi non accettato e sempre inadeguato.

Claudia e Giuseppe hanno deciso di comune accordo di separarsi: lei continua a vivere nella casa di sempre, lui si è comprato un appartamento in un paesino non distante.

Sarebbe una storia come, purtroppo, se ne sentono tante.

Ma la vicenda di Claudia e Giuseppe è ai miei occhi davvero fuori dagli schemi per come, per la prima volta davvero insieme i due genitori stanno imparando a portare avanti il legame con il loro unico figlio, Filippo, di 8 anni.

È Claudia che ammette che nonostante tutto l’impegno che ci abbiamo messo, questo rapporto matrimoniale si è concluso. Lo dice con determinazione, dopo un lungo percorso di analisi e non senza dolore. Per riconoscere e accettare di aver tradito una “promessa” che si pensava per sempre, entrambi hanno infatti impiegato molti anni. Forse non si aspettavano che, dopo questo passo di rottura, ne sarebbe seguito un altro che li ha chiamati a costruire, di nuovo insieme. È il loro tempo della genitorialità, è il loro tempo per un amore che in modo del tutto incondizionato, li fa sentire ancora capaci di una fedeltà oltre il dolore.

È un tempo lungo, durante il quale entrambi stanno comprendendo che la conclusione del matrimonio non significa affatto che con esso si debba mettere in discussione o ci si possa sentire esonerati o addirittura incapaci di una sana, duratura e profonda, relazione d’amore con i propri figli.

Giuseppe ha infatti espresso durante un incontro che, neppure volendolo con tutte le sue forze, non può smettere di essere genitore. Credo sia proprio così: possiamo smettere di rivestire molti ruoli, cambiari funzioni e variare le nostre professioni, ma una volta che un uomo si trasforma in padre, una volta che una donna diventa madre (naturali o adottivi che siano), costoro non possono più tornare ad essere “senza figli”.

Vedo negli occhi dei due genitori il desiderio, senza rivalsa l’uno sull’altra, di mantenere quel posto di educatore nei confronti del figlio, che nessuna agenzia educativa e nessuna scuola, neppure d’avanguardia, potrà mai ricoprire.

Claudia e Giuseppe non hanno accettato con rassegnazione o autocommiserazione il proprio ruolo di genitore “marginale” solo per il fatto che l’”altro” non è più il compagno quotidiano. Al contrario, stanno imparando a crescere nel rapporto unico con il proprio figlio, coltivando i tempi e i modi specifici di ogni famiglia che, nella sua singolarità, impara a creare occasione di incontro autentico. Confesso che mi sorprendono quando, davanti a me, si scambiano consigli o preoccupazioni per la crescita di Filippo…

Questi due genitori stanno maturando dal punto di vista affettivo e relazionale: stanno infatti scoprendo che, nonostante essere “genitori per sempre” non sia certo cosa semplice e scontata, non si deve cadere nell’errore di credere che dal momento che la promessa matrimoniale, siglata tra un uomo e una donna adulti e poi non rispettata, debba necessariamente comportare anche il “tradimento” della promessa della relazione affettiva e formativa verso il figlio.

Filippo ha trovato una mamma e un papà che, nel dolore, non hanno smesso di essere onesti con lui: ciò non ha comportato da parte loro il vuotare il sacco del rancore l’uno verso l’altra, quanto piuttosto mantenere sempre e comunque un rapporto genitoriale consapevole e ben orientato, che non ha bisogno di “dire male” dell’altro per ottenere un prestigio.

Filippo ha avuto bisogno di sentirselo dire che mamma e papà avevano scelto di separare la loro vita, e anche di essere rincuorato sul fatto che questo non avrebbe in alcun modo compromesso il legame d’amore che unisce un genitore a suo figlio. È un bambino di 8 anni e non può capire appieno le ragioni che allontanano mamma e papà: lui li vorrebbe sempre insieme… e insieme a lui. Tuttavia la verità a questo figlio è stata detta e ciò gli ha fatto bene. Gli è stata spiegata nei modi che un bambino come lui può comprendere e, sebbene a fatica, accettare.

Giuseppe si sta sentendo un padre migliore perché capisce di non aver deluso proprio figlio: fatica ancora molto a comprendere quando deve dire “sì” e quando è meglio un sano e robusto “no”, ma non smette di confrontarsi e di cercare la via più adeguata. Claudia si sente meno sola nell’educazione del figlio e più forte nelle sue decisioni affettive.

Auguro a Claudia e Giuseppe, tenaci “genitori per sempre”, di tener fede senza sosta alla promessa verso loro figlio Filippo, ovunque i loro affetti li condurranno.

Stefania Cagliani

Quando ascoltare è difficile

In questi ultimi mesi ho conosciuto due ragazze adolescenti che, senza conoscersi, stanno facendo un’esperienza molto simile. Entrambe, infatti, vivono una relazione affettiva con un coetaneo che abita molto lontano da loro, che frequentano quasi esclusivamente durante le vacanze dalla scuola e con il quale comunicano quotidianamente attraverso cellulare e internet.

Entrambe si trovano a dover lottare contro il volere delle madri che si oppongono a tale loro affetto.

La madre di Katrin ritiene che il ragazzo di cui la figlia si è innamorata sia “malato, con dei problemi grossi a livello affettivo, di carattere così forte da schiacciare e abbindolare mia figlia”. Il ragazzo di Silvia, invece, è ritenuto da sua madre “un poco di buono, coinvolto in giri di malavita, non ha continuato gli studi, è sempre in giro con il motorino”.

Katrin compirà i suoi 18 anni tra qualche mese e ha deciso che il giorno dopo tale data se ne andrà di casa per andare a vivere con il suo ragazzo. Sta regolarmente frequentando un liceo con ottimi risultati, non ama ritrovarsi in luoghi affollati quali le discoteche e preferisce stare in casa con le amiche, guardare un film o andare a mangiarsi una pizza. Veste alla moda, un po’ trasandata, con i pantaloni a vita bassa e maglioni ampi, una borsa equosolidale a tracolla. Ha un sorriso aperto e mi parla con serenità. Mi dice che tra le due, l’adolescente è sua madre, che sta tutto il giorno al cellulare con le amiche, che va a ballare almeno un paio di volte la settimana e la invita a fare altrettanto, senza rendersi conto che lei ha la scuola e di media si sveglia tutti i giorni alle 5 e mezza…

Sono a dir poco imbarazzata. Katrin chiarisce di non desiderare come modello una simile donna. Il giudizio negativo che Katrin ha della madre le impedisce di ascoltare le motivazioni che inducono il genitore a tentare di dissuaderla dal trasferirsi; il giudizio negativo cha la madre ha del ragazzo di Katrin impedisce a quest’ultima di parlargliene. Katrin ritiene infatti che la madre abbia un’idea che non cambierà mai e che, nonostante le dica che tra loro non ci devono essere segreti, in realtà non sia affatto interessata alla sua vita, alle sue scelte, ai suoi progetti, ma sia tutta concentrata nel trovare un colpevole alla situazione che non riesce più a gestire. “Non so perché mia mamma mi chieda di parlare se poi non mi ascolta!”

So bene che quella raccontata da Katrin è la sua versione dei fatti, che è una verità letta e interpretata da una prospettiva del tutto personale e soggettiva. Non posso comunque non tenerne conto…

Silvia è una ragazza alta, occhi scuri e capelli lunghi e mori, armoniosa nei movimenti, anche lei vestita alla moda, di quella moda che rende le ragazze di 17 anni già con le sembianze di donne… È un fiume in piena quando racconta degli ultimi avvenimenti della sua famiglia e della decisione della madre di non andare al Sud durante le vacanze invernali per impedirle di incontrare quello che ha scoperto essere il suo ragazzo. Silvia è triste perché non potrà rivedere il suo ragazzo e perché sente che la madre ha perso completamente la fiducia in lei, la tiene sotto controllo per ogni cosa, la rimprovera per piccolezze… Sono 3 settimane che la madre non le rivolge la parola e lei sta molto male. Dice che non riesce a pensare di non poter più parlare con la madre, ma che l’atteggiamento di chiusura e pregiudizio non permette di migliorare la situazione in casa. Lei vorrebbe che la madre incontrasse almeno una volta il ragazzo di cui lei è innamorata, che gli parlasse, ma “mia mamma da questo punto di vista proprio non ci sente”.

La madre di Silvia: loquace e intraprendente, socievole e molto giovanile.

La madre di Katrin: austera, di poche ma chiare parole, di morale rigida e di carattere chiuso.

Due donne che potrebbero abitare agli antipodi dell’essere madre. Tuttavia c’è in loro un comportamento comune verso le rispettive figlie: hanno smesso di ascoltarle proprio nel momento in cui ne avevano più bisogno, quando hanno iniziato a portare delle situazioni “critiche”. Immagino che, facendo fatica a gestire tali situazioni, abbiano indugiato nel dubbio, si siano sbilanciate nella critica per chiudere il rapporto con la valutazione e il giudizio.

È bene ricordare che ascoltare comporta la capacità di vestire i panni dell’altro, osservare per un breve tempo la realtà con i suoi occhi. Pur non avendo come obiettivo la ricerca di chi ha torto e di chi ha ragione, un ascolto autentico è la premessa indispensabile per la soluzione creativa dei conflitti… Questo avviene perché l’altro si sente accolto, riconosce che le sue parole hanno un senso per chi lo ascolta e che questi sta facendo di tutto per comprendere la ragionevolezza del suo punto di vista.

È accettare di mettere temporaneamente tra parentesi le proprie idee e i propri usuali modi di pensare, per aprirsi all’inaspettato.

Auguro a queste due figlie e a queste due madri di darsi la possibilità di cambiare, di abbassare le difese e di superare i pregiudizi, anche se questo significa vivere per qualche tempo nell’incertezza.

Perché ascoltare è davvero la premessa di ogni relazione profonda.

Stefania Cagliani

Veronica è molto di più

Da qualche settimana ormai le scuole hanno ricominciato la loro attività educativa ed è così che, nel corridoio della nuova scuola dell’Infanzia presso cui lavoro, per la prima volta si è affacciata Veronica: ha 5 anni e non ha mai frequentato la scuola perché, ci raccontano i genitori, è affetta da una grave forma epilettica che i farmaci non sono ancora riusciti a tenere sotto controllo.

Veronica ha lunghi capelli neri e un viso sorridente, si guarda attorno curiosa e per nulla intimorita sebbene non lasci neppure per un istante la mano della mamma che la accompagna verso la sua classe, quella dei rossi.

La maestra la accoglie serenamente e la mattinata scorre senza intoppi.

 

Ma facciamo qualche passo indietro…

È prassi che ogni nuovo inserimento venga preceduto da un colloquio tra la maestra e i genitori: anche la mamma e il papà di Veronica si sono presentati all’appuntamento e lo hanno fatto muniti di una corposa cartelletta al cui interno avevano negli anni raccolti gli esiti degli esami, delle visite, le ricette dei farmaci, le procedure da attuare in caso di necessità a scuola…

La prima parte dell’incontro ha visto i due genitori impegnati a sfogliare queste carte mostrandole all’insegnante e descrivendole nei dettagli la malattia della figlia; tuttavia ad un certo punto la maestra ha ritenuto opportuno spostare l’attenzione sulla bambina nel suo complesso e ha iniziato a porre domande su aspetti che i genitori avevano fino a quel momento ignorato: ha voluto sapere del suo grado di autonomia, della sua capacità di relazionarsi con i coetanei e con adulti non familiari, ha chiesto cosa ama mangiare e come a casa la si riesca a consolare nel caso in cui abbia momenti di nostalgia.

La maestra dà così un chiaro segnale: non intende trattare Veronica per la sua malattia, dal momento che ha ben in testa che la bambina non coincide con essa.

Veronica è molto di più.

Il colloquio si trasforma così in un racconto meraviglioso da parte dei genitori che trovano nella Scuola un luogo di accoglienza a 360°: loro lo sanno bene che Veronica è figlia, è sorella, è amica… e che l’etichetta “malata” è decisamente riduttiva e non esprime pienamente chi sia la loro ultimogenita.

Tuttavia confessano con sincerità che a volte la paura che la malattia prenda il sopravvento, la fatica quotidiana di non poter avere il controllo sul corpo della figlia, la sensazione di incertezza e precarietà fanno sì che la vita di tutta la famiglia sia fortemente influenzata dallo stato di salute di Veronica.

La sua malattia condiziona così pesantemente la vita anche degli altri due figli più grandi che le ripercussioni non hanno tardato a farsi sentire: il maggiore ha iniziato a faticare a Scuola e necessita di una costante supervisione nei compiti e nello studio, il secondogenito appare svogliato e disinteressato a tutto.

Veronica sembra aver assorbito completamente le energie dei genitori: senza volerlo la sua malattia ha fatto sì che si legassero a lei in modo distorto tanto da perdere di vista le esigenze dei altri figli e oso dire, addirittura quelle della stessa Veronica…

Il suo bisogno di relazionarsi con gli altri bambini, di frequentare un ambiente a sua misura, di fare i conti sul piano emotivo con la frustrazione di non essere sempre la prima, di dover attendere, di non farcela, e anche di sperimentare l’entusiasmo per un successo, di condividere un gioco…

Nell’arco di questo anno l’impegno della Scuola dell’Infanzia, coinvolgendo tutte le figure che in essa lavorano e crescono, (dalla dirigente alle insegnanti, dai bambini alle loro famiglie) è bene che si orienti per far sperimentare alla famiglia di Veronica un mondo “normodotato”, dentro il quale si può ritrovare e sviluppare uno sguardo più sereno e autentico anche verso la malattia.

Con gradualità costante è necessario che di questa malattia si impari a non aver più paura e a maturare verso di essa rispetto, si riesca a non innalzarla ad idolo a cui immolarsi bensì ad abbassarsi verso di essa avendone cura, la si consideri una delle caratteristiche di Veronica, certo un suo punto di fragilità, ma affiancata a tanti suoi punti di forza.

L’avventura della Scuola dell’Infanzia potrebbe rivelarsi così utile non solo per la piccola di casa, ma per l’intero nucleo familiare che attraverso questo percorso di crescita avrebbe modo di rivedere gli equilibri interni e crescere avendo maggior fiducia nei confronti della figlia, lasciandole degli spazi di autonomia per sperimentarsi, senza certo dimenticare la sua malattia, ma sapendo andare “oltre”, scoprendo che dietro la malattia c’è una fisiologica spinta e volontà di normalità.

Ho fortemente voluto farli crescere

Sara è una meravigliosa maestra della Scuola dell’Infanzia: se la memoria non mi inganna ha iniziato quando aveva 19 anni e i suoi anni di servizio arrivano quasi a 20…

Tuttavia l’inizio di questo anno scolastico l’ha vista affaticata: alcune storiche colleghe andate alla Scuola statale, una classe molto complessa da gestire a motivo di alcune situazioni di forte criticità, le nuove compagno di lavoro fresche di studi universitari, una modalità di lavoro che richiede la messa in discussione di vecchi parametri…

Per qualche settimana ho temuto che arrivasse nel mio ufficio di coordinamento e rassegnasse le dimissioni.

Invece, lei e la sua tenacia, lei e la sua volontà, lei e la sua professionalità hanno avuto la meglio: la scorsa settimana mi ha detto “ti ricordi all’inizio dell’anno? Non mi sembra vero di aver superato quel momento… Adesso i bambini stanno meglio, alle volte mi guardo attorno in sezione e li vedo giocare negli spazi e mi domando -Ma sono gli stessi di due mesi fa?-“

No, non sono più gli stessi.

Adesso sono un po’ cresciuti.

Anche grazie a lei che ha creduto e fortemente voluto farli crescere.

Davvero il processo educativo mette in gioco sia l’allievo sia il maestro…

Scelte “scontate”

Ci sono bambini (ma non solo!) che indossano abiti e calzature… non loro!

Ve ne siete mai accorti?

Personalmente me ne sono resa conto una mattina in cui mi sono fermata nel corridoio di una Scuola dell’Infanzia e, intrattenendomi con i bambini alla presenza dei loro genitori o nonni, ho avviato una piacevole e divertente conversazione.

Mi sono seduta sulle panchine disposte vicine agli armadietti e ho sentito Tommaso (5 anni) che diceva a Matteo (4 anni e mezzo): “Le mie scarpe sono di Ben Ten!” e mostrava all’amico con orgoglio un paio di scarpe da tennis bianche e verdi su cui vi era l’immagine del personaggio in voga al momento. Matteo non si era certo tirato indietro e dal suo armadietto aveva recuperato il cappellino del sole “io ho il cappello di Spiderman!”. La faccenda mi ha molto incuriosita e ho iniziato a fare domande: “Ma la vostra mamma e il vostro papà non hanno i soldini per comprarvi scarpe e cappello?” I due mi guardavano senza capire. “Avete dovuto farvi prestare le scarpe da Ben Ten e il cappello da Spiderman? Non li avevate vostri?”. “Ma sono nostri!” aveva risposto con foga Tommaso. “Avevo capito che erano di Ben Ten e di Spiderman…”. “No, sono nostri!” “Ah, allora c’è solo il disegno di Ben Ten e di Spiderman, giusto?” “Giusto” dice Matteo, un po’ frastornato… A quel punto anche io ho mostrato le mie scarpe “Ecco: le mie sono marroni e hanno una fibbia di metallo”. Poi mi sono girata verso altri bambini appena sopraggiunti, chiedendo di descrivere le proprie scarpe. Qualcuno ancora cadeva nel tranello: “Le mie sono delle Winx”, ma ormai Tommaso e Matteo avevano scoperto l’inganno e anche loro scherzavano: “Non sono delle Winx! Sono tue! Però hanno il disegno delle Winx!” E chiedevano una descrizione più accurata: “Sono gialle, hanno le stringhe, sono il numero 32… “

Quel giorno in sezione non hanno fatto altro che parlare, disegnare e costruire con il cartone numerose paia di scarpe!

La riflessione adulta porta a contenuti legati alla gestione delle cose, al loro utilizzo, all’identificazione in esse, al valore simbolico ed economico ad esse assegnato…

Ci sono bambini (e di nuovo devo dire ma non solo!) che avendo poche risorse e competenze relazionali utilizzano gli oggetti per raccontare di sé, per entrare in contatto con gli altri, per “esserci”. Sono bambini i cui genitori li hanno abituati a presentarsi a scuola vestiti all’ultima moda, con indumenti comprati perché visti alla televisione o indosso all’amico/a, sono quelli che prima di salutare ti chiedono di porre attenzione all’oggetto che indossano per ricevere un complimento…

Mio nipote Michele (5 anni tra qualche giorno) spesso chiede alla sua mamma che gli propone un vestito nuovo: “Di chi era prima?” ad indicare la consapevolezza che quel vestito è già stato indossato dal fratello maggiore o dal cuginetto o da un amico più grande. E la cosa va bene così! È una linea di continuità che aiuta i bambini a comprendere il buon uso delle cose e il loro valore; nulla di male se la maglietta propone un personaggio in voga ben 3 anni prima (!) o i pantaloni sono di un colore che denuncia tanti lavaggi!

Come altrimenti sottrarsi alle urla insistenti dei bambini che, entrando in un negozio, vogliono assolutamente acquistare qualcosa, spesso peraltro del tutto superfluo o inadeguato alla loro età? Come far comprendere che il denaro è frutto del lavoro e che, pertanto, va rispettato e di esso bisogna far uso in modo responsabile ed equo? Certo una spiegazione verbale è un ottimo canale, soprattutto dopo i 3 anni; ma nulla è più efficace che la prassi quotidiana di un adeguato utilizzo dei soldi, mostrando che ciò che viene acquistato al supermercato o i servizi richiesti hanno un costo. Per i bambini il denaro altro non è che un oggetto che, esaurito, si può riavere andando al bancomat o chiedendolo a qualcuno… Ma chi già abita il mondo adulto ha il compito di avvicinare gradualmente (e magari con il gioco) i piccoli alla corretta comprensione del valore del denaro, soppesando le scelte del bilancio familiare e avendo il coraggio (un po’ controcorrente nella mentalità ma non certo nella necessità di questo tempo) di “consumare” quanto acquistato e non di gettarlo prima che di esso si siano sfruttare tutte le potenzialità.

Come negare che agli adolescenti non servano affatto cellulari super tecnologici che hanno funzioni da manager internazionale o computer ultimo modello da cambiare ad ogni ciclo scolastico? Così come non riflettere sul fatto che ai ragazzi neo patentati non servono macchine da urlo la cui velocità è più un pericolo che una necessità?

Come appare altrettanto evidente che per nessuno di noi sia indispensabile il televisore ultrapiatto che permette la visione di un numero pressoché illimitato di canali i cui programmi mai sono stati tanto costosi quanto “scontati”…

Tempo senza libertà

Lunedì: ginnastica artistica (prima lezione)

Martedì: incontro di catechesi.

Mercoledì: introduzione alla pittura.

Giovedì: ginnastica artistica (seconda lezione)

Venerdì: lezione di pianoforte.

Sabato mattina: nuoto.

Questo è l’ordinario ritmo che Martina, una bambina che frequenta la V elementare, sostiene ogni settimana. La sua mamma mi spiega che, nel tempo extra scolastico, desidera che sua figlia sia occupata in attività che spazino tra sport, musica, pittura e formazione religiosa. Ciò comporta a lei una frenetica attività in qualità di “tassista” tra palestra e piscina, parrocchia, scuola musicale e d’arte per accompagnarla nelle varie sedi; ad ogni modo la donna si dice disposta a fare tutto ciò pur di garantire alla figlia una crescita completa.

Tuttavia la bambina a volte, nonostante l’averla accontentata in così tanti desideri di svolgere questa e quella attività con compagne ed amiche, appare nervosa e insoddisfatta” mi dice la mamma.

È evidente che Martina non abbia ancora raggiunto, a motivo della sua età immatura, la capacità di compiere delle scelte responsabili circa la gestione del suo tempo, anche quello libero. Vorrebbe fare tutto, appagando ciò che in un dato momento è un suo desiderio: le piace ballare, dipingere, suonare, stare in una squadra con i compagni, muoversi ed esprimersi…

Come negare che sia importante far fare movimento ad una bambina in crescita? Come rifiutarsi di credere che la musica sia una espressione artistica di alto valore? Come non credere che l’uso dei colori non favorisca immaginazione ed espressione della propria visione del mondo e dei propri stati emotivi? E come sottrarsi alla catechesi in una famiglia tradizionalmente cattolica? Tutto è messo sullo stesso piano, posto al medesimo livello sia di importanza sia di valore. Non essendoci una scala di priorità e non volendo rinunciare a nulla, Martina è, non solo messa nelle condizioni, ma anche stimolata, a fare tutto, a provare tutto per scoprire cosa le piace di più.

Il suo piacere immediato è evidente, ma a lungo andare la bambina ha iniziato a dare segnali di stanchezza certamente fisica, ma anche di tipo psicologico poiché sostenere così tante attività differenti in ritmi così accelerati, rende pressoché impossibile affezionarsi a ciascuna di esse, scegliendola davvero come propria area di interesse: chissà da dove ci arriva la convinzione che stare in casa qualche pomeriggio a giocare con la sorellina, fare una torta con la mamma, andare in bicicletta o con i pattini in giardino sia utilizzare male il proprio tempo libero, cioè “perdere tempo” e non crescere in modo integrale…

Martina, non dimentichiamolo, ha 10 anni: il suo tempo va ancora gestito dai suoi genitori che è bene la aiutino a riempirlo in modo opportuno, senza saturarlo al punto da non favi più “entrare uno spillo”, evitando di farla sentire tirata tra un impegno e l’altro.

Anche per Martina il “tempo libero” deve poter voler dire che in esso ci si riposa (perché il riposo non è tempo perso, ma libero da occupazioni che affaticano, è un tempo dignitoso, da custodire), ci si dà la possibilità di esprimersi senza sentirsi appesantiti, si coltivano con tranquillità le relazioni senza caricarle di una qualche forma di prestazione.

Certo è che Martina, per sua natura, è davvero molto dotata: riesce bene nello sport, i maestri di pianoforte e pittura la ritengono brava, a pallavolo gioca nella squadra tra le titolari e la catechista la vede coinvolta durante gli incontri. Cosa dire di lei? Anche a scuola i risultati non mancano…

È davvero un peccato non farle fare tutto!” ribadisce la mamma che proprio non si arrende a tenere sua figlia a casa a “fare niente”, poiché a suo avviso il tempo va riempito per non cadere nell’inerzia.

Quello che con la mamma di Martina vorrei condividere è che un tempo è davvero libero quando non è sottoposto a valutazione e costrizione, quando è vissuto con le persone che si amano, quando è denso di significato più che di attività.

Bisogna allora arrivare a chiedersi: qual è il significato di una settimana così schizofrenica, divisa cioè tra un impegno e l’altro? È davvero libero questo tempo? Non è forse vero che Martina sta diventando un po’ schiava del suo tempo libero? Che paradosso!

Parrebbe quasi che avere una manciata di ore alla settimana da dedicare alla tranquillità di casa, a “stare senza necessariamente fare”, sia un segno di mancanza di vita.

Non vuole essere questo un elogio dell’ozio, al contrario.

Vorrebbe essere un elogio ad una sana capacità di “perdere tempo” dietro alle relazioni familiari, al gustare la libertà di un libro letto a casa, di un disegno fatto con ordinari acquarelli comprati nel negozio sotto casa e usati sul tavolino della cucina senza la valutazione di un esperto insegnante, ma sotto lo sguardo valorizzante di mamma e papà.

Una festa di compleanno alternativa

Una mattina Lorenzo, accompagnato alla scuola dell’Infanzia dal suo papà e dalla sua sorellina più piccola, mi viene incontro con una busta e mi dice “è la mia festa di compleanno”.

Pensando ad un invito al festeggiamento del suo quinto anno d’età, lo ringrazio avendo già nella testa di dirgli che non avrei potuto partecipare.

In realtà, con mia grande sorpresa ho trovato sì un biglietto, ma di spiegazione dei quasi 300 euro presenti nella busta. Non ho avuto il tempo di leggere il contenuto del biglietto perché è sopraggiunto il papà dandomi dei chiarimenti.

Quest’anno la loro famiglia ha deciso di vivere il compleanno del figlio in modo diverso: insieme ad un’altra coppia di genitori e un’altra bambina che nello stesso periodo festeggiava i suoi sei anni, hanno deciso di trasformare la ordinaria festa di compleanno in un’occasione di crescita per loro e per i loro figli.

Durante una domenica pomeriggio, mentre passeggiavano per una gita fuori porta, si sono trovati a discutere delle modalità utilizzate negli ultimi anni per festeggiare i compleanni dei rispettivi figli commentando lo stress incredibile per la gestione dei bambini, i soldi spesi per inviti e torte da lussuosa pasticceria, un anno persino avevano fatto intervenire un clown per l’intrattenimento e dato un piccolo regalo ad ogni partecipante…

Hanno così condiviso il desiderio di qualcosa di diverso per i figli e per loro stessi, qualcosa che esprimesse meglio come stanno cercando di educarsi come famiglia a dei valori magari un po’ fuori moda. Sostenendosi a vicenda e sentendosi così meno soli nel proporre una cosa “alternativa”, hanno dato vita ad un’esperienza che Lorenzo e Alessandra ancora oggi raccontano con orgoglio.

Innanzitutto i biglietti di invito alla festa li hanno costruiti loro con della carta colorata, pennarelli, forbici e colla: hanno ritagliato dai giornali le immagini dei loro personaggi preferiti dei cartoni animati e li hanno incollati su del cartoncino preparato dalle mamme. Alessandra ha scritto i nomi dei bambini che volevano invitare, una mamma la data e il luogo del ritrovo; alla fine Lorenzo li ha infilati nelle buste.

Sul biglietto inoltre era scritto di partecipare alla festa senza portare alcun regalo, ma di predisporre una busta in cui inserire i soldi corrispondenti alla spesa: la cifra raccolta sarebbe poi stata destinata in parte per l’adozione a distanza di un bambino africano e in parte alla Scuola dell’Infanzia dei loro figli per l’acquisto di materiale didattico.

La festa ha avuto inizio attorno ad un grande tavolo su cui erano predisposti gli ingredienti per fare dei semplici dolci: ad ogni bambino è stato consegnato un “grembiule” (un sacchetto dell’immondizia azzurro tagliato appositamente per far uscire testa e braccia!) e tutto l’occorrente per impastare: una mamma dava le indicazioni sul da farsi, mentre l’altra aiutava i bambini in difficoltà (solo per chiarezza: le due mamma non sono né pasticcere, né educatrici di scuola… la prima è impiegata, la seconda avvocato).

Alla fine, nel divertimento di tutti, i dolci sono stati infornati. Nell’attesa della cottura i bambini si sono divertiti con i numerosi giochi presenti in casa e con la tombola che vedeva in palio piccoli regali quali una gomma, una matita, una molletta per i capelli, una spugnetta per il bagno… Come tombola una scatola di acquarelli!

Poi il momento dello spegnimento delle candeline: le due mamme avevano preparato ciascuna una torta per loro figlio/a e, attorno al tavolo, Lorenzo e Alessandra hanno soffiato sulla fiammella delle loro candeline. Le due torte erano ovviamente accompagnate dai dolci preparati dai bambini che riconoscevano le forme fatte e commentavano i livelli di bruciacchiatura! Qualche fetta di torta è avanzata, ma dei dolcetti fatti con le loro mani nemmeno le briciole…

A seguire avrebbe dovuto esserci il momento della apertura dei regali, ma tutti i bambini erano stati informati che non ce ne sarebbero stati perché questa era una festa speciale in cui si pensava anche ad un bambino che abitava in un paese lontano. A quel punto i bambini sono stati invitati a mettersi davanti alla televisione: una mamma ha inserito un DVD in cui si mostravano alcune fotografie (selezionate affinché i bambini potessero capire senza restare turbati) del villaggio dove abita un bambino che essendo talmente povero non ha i soldi per mangiare tutti i giorni, per andare a scuola, per comprare dei vestiti e delle scarpe… La mamma ha spiegato che grazie ai soldi non spesi per dei giochi per il compleanno di Lorenzo e Alessandro, ora questo bambino andrà a scuola per un anno intero e che, anche se vive molto lontano da loro, questo è un nuovo fratellino per Lorenzo e Alessandro. Un fratellino “nuovo” come Dono di compleanno: niente male, no?

I bambini erano attentissimi sia alle immagini sia alle parole: uno di loro, quando la sua mamma è venuto a riprenderlo per riportarlo a casa dopo la festa gli ha detto che anche lui vuole un nuovo fratellino che vive lontano…

Che la Festa continui.

“La mia bambina non mi mangia!”

Anna è una bambina di quasi tre anni.

Arriva al Nido sorridente e spavalda, senza neppure dare la manina alla mamma. Cammina lungo il corridoio e si ferma sicura proprio davanti al suo armadietto dove appende il cappellino e la giacchetta. Poi si siede e aspetta che le vengano tolte le scarpe e infilate le calze antiscivolo. La sua giornata inizia sotto i migliori auspici e generalmente continua senza intoppi.

La maestra tuttavia sottolinea che ci sono alcuni giochi a cui Anna non si avvicina o attività in cui la bambina si rifiuta di lasciarsi coinvolgere: non ama sporcarsi le mai con il pongo o il didò, non tocca le tempere a dito o le spugnette intrise di colore, detesta la colla liquida.

La difficoltà più grande della giornata di Anna è il momento del pranzo: si comporta in modo naturale recuperando la sua bavaglia e mettendosela al collo, riconosce il suo posto e il suo piatto, permette all’insegnante di riempirle il piatto, ma lei non mangia.

Non si tratta di rifiuto di alcuni cibi particolari: in realtà Anna non mangia se non la pasta bianca e il pane.

Resta a tavola fino a quando gli altri bambini non hanno concluso il pasto e poi, con assoluta tranquillità, si toglie la bavaglia e ricomincia a giocare con i compagni. Ormai sembra la normalità.

La mamma di Anna è molto preoccupata poiché la figlia si comporta così da molti mesi anche a casa e lei non ha trovato altro modo per contenere il problema mantenendo il nutrimento con il latte serale e alcuni cibi che a giorni sporadici Anna accetta di mangiare quali le patate, la pizza, il formaggio fontina, i bastoncini di pesce…

È interessante e fa un po’ sorridere quella frase che la mamma di Anna pronuncia in realtà con tono affaticato “Anna non mi mangia!”, come se fosse lei il cibo di cui la figlia si debba nutrire e da lei dovesse trarre le energie e il sostentamento per vivere. Per quanto lodevole negli intenti, tale atteggiamento è ingannevole e rischia di trasformare il rapporto tra la madre e la figlia in una legame scorretto, fondato sulla simbiosi, in cui le due parti sono fuse e con-fuse e dove l’espressione del gusto personale è vissuto come un tradimento.

Quando mi faccio raccontare il momento del pasto a casa emergono elementi di criticità: Anna può scegliere cosa mangiare tutte le sere (la mamma cioè chiede a lei cosa vuole nel piatto e glielo cucina appositamente per poi sentirsi dire che non lo vuole più!), se non mangia può alzarsi da tavola (qui è soprattutto il papà, infastidendosi nel vederla mentre gioca con le posate, le dà velocemente il permesso di andare a giocare), le cene sono diventate estenuanti lotte tra lei e la mamma e spesso si concludono con la concessione di bere il latte nel biberon prima di andare a letto. Non è neppure da sottovalutare il confronto a cui la bambina si sente costantemente sottoposta nei confronti della sorella maggiore che al contrario di lei, mangia tutto, in abbondanza e con piacere, dando grandi soddisfazioni alla mamma che si sente più adeguata e di “funzionare meglio”…

Il papà la sgrida spesso se si sporca a tavola, se fa rovesciare per sbaglio l’acqua del bicchiere o se fa rumore con le posate: Anna ha pertanto gradualmente smesso di provare interesse verso il momento del pasto che, più di una volta, l’ha messa a disagio e in difficoltà.

La mamma ha anche riferito che si accorge che quando in casa il clima è sereno e lei si propone più distesa e allegra le cose a tavola vanno meglio, mentre quando per le ragioni più svariate in casa c’è un clima teso, il cibo per Anna diventa un grosso problema.

Ora il problema si sta generalizzando anche al Nido e alle attività di manipolazione: sembra vietato sporcarsi, proibito giocare con l’acqua e le tempere, negata l’opportunità di sperimentare materiali nuovi se questi lasciano una traccia…

Con la mamma e il papà abbiamo così iniziato ad accompagnare Anna verso un miglior rapporto con il cibo: niente latte sostitutivo della cena o merendine fuori pasto, riti commensali più stabili, possibilità di scelta di cosa avere a tavola una volta la settimana e nelle occasioni speciali, racconto della giornata da parte dei membri della famiglia durante la cena (con evidente spegnimento della televisione), atteggiamento sereno prima del pasto, possibilità di preparare il pasto insieme alla mamma, mettendo le mani nella farina o mescolando sotto stretta sorveglianza il sugo…

Per ora al Nido abbiamo visto soltanto che Anna ha assaggiato il risotto giallo e la frittata con le zucchine, ma crediamo che l’atteggiamento messo in atto sia corretto e adeguato per sostenerla in una buona educazione alimentare.

Spesso il cibo è un veicolo attraverso cui si esprimono il piacere e le difficoltà delle relazioni: poter godere di una mensa attorno alla quale siedono le persone amate, condividere con loro il cibo e i racconti quotidiani, essere incoraggiati (non costretti) a nutrirsi e quindi a prendersi cura di se stessi è una grande possibilità per diventare grandi, non solo nel corpo.

La mia maestra è la migliore amica di Gesù

Serena è una bambina di 4 anni che incontro alla Scuola dell’Infanzia di Buccinigo d’Erba (Como). Io da pochi mesi mi occupo della sostituzione di maternità della coordinatrice e la incontro nei corridoi, in sala da pranzo, all’ingresso e all’uscita con la sua mamma, in giardino. Soprattutto la incontro durante il tempo dedicato all’Insegnamento di Religione Cattolica che la Scuola propone settimanalmente ad ogni gruppo sezione.

La mamma mi racconta che durante il giorno di festa dell’Immacolata Concezione di Maria, Serena e la sua famiglia hanno organizzato un pranzo con dei conoscenti e un’amica della mamma le ha chiesto:

“Come va la Scuola, Serena?”

“Bene” dice lei “quest’anno c’è una nuova maestra”.

“Ah, una nuova maestra…” e, rivolgendosi alla mamma, aggiunge “chi è?”

È Serena a voler rispondere: “Lei è la migliora amica di Gesù”.

Serena ha messo a fuoco in modo cristallino e lucido una “verità nucleare”: Gesù si incontra se la persona che ne dà testimonianza ha con Lui un rapporto d’amore.

In buona sostanza Serena, che ogni settimana sentiva che la sua maestra le parlava di Gesù, della sua vita, delle sue parole, dei suoi gesti, della sue amicizie ha ben inteso che questa insegnante innanzitutto conosceva bene Gesù e, poiché ne parlava bene, ne ha dedotto in modo spontaneo che fosse una sua amica, anzi, la sua “migliore amica”, espressione che spesso tra i bambini è diffusa quando vogliono sottolineare il rapporto speciale, intimo e forte tra sé e un compagno.

Il mio anno di sostituzione lavorativa si è velocemente concluso; Serena è rimasta nella mia vita affettiva.

Serena ha chiesto al suo papà e alla sua mamma che si sposassero: ho partecipato così alle loro nozze. Poiché ho saputo che Serena ha poi chiesto ai suoi genitori di ricevere il sacramento del Battesimo confido di poterla rivedere presto…

Conosci Gesù?

“Conosci Gesù?” chiedo a Mattia, un bambino di 5 anni. “Sì” mi risponde.

“E chi te lo ha fatto conoscere?” “Don G. e poi gli altri preti, la mia nonna e il mio nonno”

“Come te lo immagini Gesù?” “Lui ha gli occhi azzurri come i miei, i capelli marroni e il corpo bello”

“Cosa ha fatto di importante?” ”Ha fatto un bel mondo, il mare, le montagne… e la gioia!”

“Cosa ha detto di importante?” “Ha detto che dovevano esserci delle persone e delle cose”

“Gesù aveva degli amici?” “Sì, gli angeli e poi la sua mamma Maria e il suo papà Giuseppe”

“Dove è nato Gesù?” “É nato dalla pancia della sua mamma, in una casa di paglia”

“Tu lo sai che Gesù è morto?” “Sì, don G. ci ha fatto vedere un DVD”

“E come mai è morto?” “É morto perché c’erano degli uomini cattivi che lo hanno ucciso. Gli hanno messo i chiodi nelle mani e nei piedi e lo hanno messo su una croce. Gli hanno messo anche una croce in testa”

“Cosa è successo dopo che è morto?” “É andato in cielo e è risorto”

“E adesso dov’è?” “É in cielo e guarda tutte le cose. Cura le persone morte e anche quelle vive. Come la mamma di Silvia che è morta. La conosci Silvia? Lei viene alla Scuola con me. Lei (la mamma) è in cielo con Gesù”

“Quando vai in chiesa dove è Gesù?” “Sulla croce. In chiesa poi si fanno tante feste… il Natale è la festa di Gesù, anche la Pasqua, anche quando arriva la befana!”

“Mattia, ti chiedo ora, se ne hai voglia, di recitare una preghiera che vuoi dire tu a Gesù”. A questo punto Mattia, senza alcuna difficoltà, si mette a cantare una preghiera che inventa al momento e che recita così: “Gesù Gesù, vieni da me, che ti dico una cosa importante. Vieni da me, vieni da me e facciamo tante cose insieme e poi giochiamo insieme. E poi ti lascio andare con i tuoi amici in cielo… Vieni Gesù, Vieni Gesù”

“Gesù ogni tanto ti dice qualcosa?” “Gesù mi dice delle cose, ma a bassa voce e io non lo sento perché delle volte ci sono dei rumori. Quando (Gesù) abita in Cielo è troppo lontano e non lo sento. Quando abita nel mio cuore sì (lo sento).